Emigranti by Unknown

Emigranti by Unknown

autore:Unknown
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Letteratura
editore: Rubbettino Editore
pubblicato: 2021-07-21T12:28:27+00:00


IV

La notizia dello scandalo di Giusa Blèfari si propagò in un lampo per il paese. Molte lettere partirono per l’America, e più d’una era già partita all’indirizzo di mastro Genio, per informarlo della condotta di sua moglie, sulla quale correvano già i commenti più animati.

Quando i figli di Rocco appresero le due tristi nuove, abbandonarono immediatamente il lavoro dove si trovavano impiegati, e partirono senza mèta per andar lontano, in un luogo dove non ci fosse alcuno del loro paese.

La prima sera che si ritrovarono soli in un villaggio della Pennsylvania, si chiusero in una stanza per scrivere al padre, e lì, con la carta davanti e il pensiero alla famiglia, si guardarono negli occhi in silenzio, e piansero come fanciulli. Poi Gèsu scrisse una lettera che stringeva il cuore. Si rammaricavano col padre della sventura che aveva colpito la loro casa, nella più gelosa delle loro ricchezze: l’onore. Gli raccomandavano però di non abbandonare la sorella maggiore, Giusa, quella che aveva fatto un po’ da mamma a tutti loro, perché, la poverina, doveva ritenersi più disgraziata che colpevole. Dell’altra sorella non volevano avere più notizie. La vendetta oramai non spettava a loro: quella aveva il marito, al quale essi l’avevano consegnata come un fiore. Ci pensasse lui. Per conto loro la cancellavano anche dalla loro memoria, e se anche fosse morta, essi non intendevano esserne informati.

E siccome anche sulla condotta di mastro Genio correvano nell’elemento degli emigranti delle notizie poco simpatiche, Pietro si recò dal cognato, un po’ per accertarsi di persona della consistenza delle dicerie che lo riguardavano, un po’ per incitarlo a ritornare in Italia e punire la colpevole.

Lo trovò in una specie di locanda tenuta da una calabrese attempata, di Catanzaro; una di quelle locande-ristoranti che gli emigrati chiamano storo, dove si dà da mangiare a da dormire ai lavoratori italiani. Era diventato grasso come un cappone nella stia, con la faccia ripugnante del fannullone. In principio vi si era impiegato come cameriere, poi era diventato l’amante della padrona, che lo teneva da conto come il verme nel formaggio. La sola sua occupazione era quella di strimpellare la chitarra per far divertire gli avventori, e accompagnare le loro canzoni.

Difatti Pietro lo trovò seduto dietro il banco, accanto alla padrona: suonava e canticchiava. Lo storo era in una specie di baraccamento, con un salone pieno di piccoli tavoli di ferro, e qualcuno di marmo. I tavoli in parte erano occupati da operai che bevevano birra: qualcuno anche mangiava. La padrona, una donna sui cinquant’anni, energica, bruna, con un viso angoloso e sparso di piccole macchioline scure, simili a quelle chiazze di licheni che si formano sui sassi esposti all’umidità, le mani magre d’arpia, segnate da grosse vene violette, carica d’oro al collo e ai polsi come una regina barbara, lo ascoltava con un’aria accorata e insieme contegnosa.

Quando mastro Genio lo vide entrare, tentò dissimulare il disappunto che gli procurava quella visita. Si alzò, gli tese la mano e lo accompagnò a un tavolinetto di marmo in un angolo.



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